mercoledì 21 giugno 2017

Breve storia della NATO dal 1991 ad oggi (Parte 10)

dalla pagina https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/20545499

Manlio Dinucci
IL COLPO DI STATO IN UCRAINA
 
L’operazione condotta dalla NATO in Ucraina inizia quando nel 1991, dopo il Patto di Varsavia, si disgrega anche l’Unione Sovietica di cui essa faceva parte. Gli Stati Uniti e gli alleati europei si muovono subito per trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione geopolitica.

L’Ucraina – il cui territorio di oltre 600mila km2 fa da cuscinetto tra NATO e Russia ed è attraversato dai corridoi energetici tra Russia e Ue – non entra nella NATO, come fanno altri paesi dell’ex Urss ed ex Patto di Varsavia. Entra però a far parte del «Consiglio di cooperazione nord-atlantica» e, nel 1994, della «Partnership per la pace», contribuendo alle operazioni di «peacekeeping» nei Balcani.

Nel 2002 viene adottato il «Piano di azione NATO-Ucraina» e il presidente Kuchma annuncia l’intenzione di aderire alla NATO. Nel 2005, sulla scia della «rivoluzione arancione» (orchestrata e finanziata dagli Usa e dalle potenze europee), il presidente Yushchenko viene invitato al summit NATO a Bruxelles.

Subito dopo viene lanciato un «dialogo intensificato sull’aspirazione dell’Ucraina a divenire membro della NATO» e nel 2008 il summit di Bucarest dà luce verde al suo ingresso. Nel 2009 Kiev firma un accordo che permette il transito terrestre in Ucraina di rifornimenti per le forze NATO in Afghanistan. Ormai l’adesione alla NATO sembra certa ma, nel 2010, il neoeletto presidente Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione alla NATO non è nell’agenda del suo governo.

Nel frattempo però la NATO tesse una rete di legami all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano per anni a corsi del NATO Defense College a Roma e a Oberammergau (Germania), su temi riguardanti l’integrazione delle forze armate ucraine con quelle NATO. Nello stesso quadro si inserisce l’istituzione, presso l’Accademia militare ucraina, di una nuova «facoltà multinazionale» con docenti NATO.

Notevolmente sviluppata anche la cooperazione tecnico-scientifica nel campo degli armamenti per facilitare, attraverso una maggiore interoperabilità, la partecipazione delle forze armate ucraine a «operazioni congiunte per la pace» a guida NATO.

Inoltre, dato che «molti ucraini mancano di informazioni sul ruolo e gli scopi dell’Alleanza e conservano nella propria mente sorpassati stereotipi della guerra fredda», la NATO istituisce a Kiev un Centro di informazione che organizza incontri e seminari e anche visite di «rappresentanti della società civile» al quartier generale di Bruxelles.

E poiché non esiste solo ciò che si vede, è evidente che la NATO costruisce una rete di collegamenti negli ambienti militari e civili molto più estesa di quella che appare.

Sotto regia Usa/NATO, attraverso la Cia e altri servizi segreti vengono per anni reclutati, finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti ucraini di Uno-Unso addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori NATO, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di esplosivi per sabotaggi e attentati.

Lo stesso metodo usato dalla NATO, durante la guerra fredda, per formare la struttura paramilitare segreta «Gladio». Attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in altre basi, vengono addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad attentati e a un eventuale colpo di stato.

È questa struttura paramilitare che entra in azione a piazza Maidan, trasformandola in campo di battaglia: mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo, «ignoti» cecchini sparano con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui poliziotti (quasi tutti colpiti alla testa).

Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della NATO si rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le nostre relazioni». Abbandonato dai vertici delle forze armate e da gran parte dell’apparato governativo, il presidente Viktor Yanukovych è costretto alla fuga.

Andriy Parubiy – cofondatore del partito nazionalsociale, costituito nel 1991 sul modello del Partito nazionalsocialista di Adolf Hitler, e capo delle formazioni paramilitari neonaziste – viene messo a capo del «Consiglio di difesa e sicurezza nazionale».

Il putsch di Piazza Maidan è accompagnato da una campagna persecutoria, diretta in particolare contro il Partito comunista e i sindacati, analoga a quelle che segnarono l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo in Germania. Sedi di partito distrutte, dirigenti linciati, giornalisti seviziati e assassinati; attivisti bruciati vivi nella Camera del Lavoro di Odessa; inermi abitanti dell’Ucraina orientale di origine russa massacrati a Mariupol, bombardati col fosforo bianco a Slaviansk, Lugansk, Donetsk.

Un vero e proprio colpo di stato sotto regia Usa/NATO, col fine strategico di provocare in Europa una nuova guerra fredda per colpire e isolare la Russia e rafforzare, allo stesso tempo, l’influenza e la presenza militare degli Stati uniti in Europa.

Di fronte al colpo di stato e all’offensiva contro i russi di Ucraina, il Consiglio supremo della Repubblica autonoma di Crimea – territorio russo passato all’Ucraina in periodo sovietico nel 1954 – vota la secessione da Kiev e la richiesta di annessione alla Federazione russa, decisione che viene confermata con il 97% dei voti favorevoli da un referendum popolare. Il 18 marzo 2014 V. Putin firma il trattato di adesione della Crimea alla Federazione russa con lo status di repubblica autonoma.

La Russia viene accusata, a questo punto, dalla NATO e dalla Ue di aver aver annesso illegalmente la Crimea e sottoposta a sanzioni.

(10 – continua)


BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (1 e 2)
BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (3 e 4)
BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI (5,6,7)

venerdì 16 giugno 2017

UE: non investire nelle armi

dalla pagina https://act.wemove.eu/campaigns/ue-non-investire-nelle-armi

Ai Membri europei del Parlamento e del Consiglio europeo

Petizione

Impedisci l’inclusione della ricerca per l’industria bellica nel nuovo budget dell’UE. Nessuna sovvenzione europea dovrebbe andare alla tecnologia militare. I finanziamenti per la ricerca dovrebbero essere destinati a progetti che sviluppano modi non violenti per prevenire e risolvere i conflitti ed in particolare per affrontare le cause alla radice dell’instabilità.

Perché è importante?

Vogliamo tutti vivere in un mondo pacifico ed è per questo che è stata creata l’Unione europea.
Ma la Commissione europea, sotto la forte pressione dell’industria bellica, sta ora progettando di stanziare migliaia di milioni di euro di denaro pubblico per sviluppare una tecnologia militare avanzata per la prima volta da quando esiste l’Unione [1].
Anche se viene presentata come una misura di "difesa", la verità è che lo scopo di questi sussidi è di preservare la competitività dell’industria bellica e la sua capacità di esportare all’estero, anche in paesi che contribuiscono all’instabilità e che prendono parte a conflitti letali, come l’Arabia Saudita [2].
L'anno scorso i nostri governi ed europarlamentari hanno votato uno stanziamento di 90 milioni di euro su 3 anni per finanziare la ricerca militare e questo è solo l’inizio.
La Commissione Ue sta spingendo sui finanziamenti alle “strategie di difesa” usando fondi già esistenti, a discapito di programmi regionali e strutturali di aiuto allo sviluppo e, persino, del programma Erasmus per l'istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport, che dovrebbero d’ora in poi contribuire a "competenze di difesa"! [3]
Lo scorso 7 giugno la Commissione ha presentato ufficialmente Piano d'azione europeo in materia di difesa [4] insieme alla proposta di una dotazione annua stimata di 500 milioni di euro dal budget Ue per la ricerca e lo sviluppo nel settore bellico e degli armamenti nel 2019-2020 [5]. Si prevede che nel 2021 questo stanziamento cresca e raggiunga i 1,5 miliardi all’anno. La situazione è molto più grave di quella in cui ci trovavamo nel novembre 2016 [6].
Il Fondo comprende, inoltre 4 miliardi di contributi nazionali annuali per finanziare l’ultima fase del processo: l’acquisizione di equipaggiamenti militari e lo sviluppo congiunto da parte degli Stati membri. La Commissione ha proposto che i contributi nazionali da destinare al Fondo siano esclusi dalla soglia di disavanzo del 3% del PIL che gli Stati membri sono tenuti a rispettare. Un privilegio che non è accordato a settori come l’educazione, la sanità pubblica o gli investimenti per la tutela dell’ambiente.
Questi provvedimenti significheranno tagli drastici a scapito di altre priorità di spesa sia a livello europeo sia a livello nazionale. L'UE insiste sul fatto che tale finanziamento dovrebbe essere aggiunto alle spese militari nazionali, e non essere un loro sostituto.
È ormai chiaro che dopo anni di manovre dietro le quinte, l’industria bellica si è riuscita ad ottenere il supporto di alcuni paesi europei e di alti funzionari, riuscendo a far passare le spese belliche sotto forma di “ricerca”, e più in generale a sbarazzarsi delle norme che limitano i finanziamenti dell'UE a impieghi civili.
Ma abbiamo ancora una possibilità per evitare che i soldi dei contribuenti europei vengano usati per finanziare le guerre. Diciamo ai membri del Parlamento europeo che vogliamo che lavorino per la pace, non per sovvenzionare le armi.

In partenariato con la Rete europea contro il commercio delle armi (ENAAT)

 

martedì 6 giugno 2017

Il vero record di Renzi: sestuplicato l’export di armamenti

Lo sa, ma non lo dice in pubblico. E la notizia non compare né sul suo sito personale, né sul portale “Passo dopo passo” e nemmeno tra “I risultati che contano” messi in bella mostra con tanto di infografiche da “Italia in cammino”. Eppure è stata la miglior performance del suo governo. Nei 1024 giorni di permanenza a Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha raggiunto un primato storico di cui però, stranamente, non parla: ha sestuplicato le autorizzazioni per esportazioni di armamenti. Dal giorno del giuramento (22 febbraio 2014) alla consegna del campanellino al successore (12 dicembre 2016), l’esecutivo Renzi ha infatti portato le licenze per esportazioni di sistemi militari da poco più di 2,1 miliardi ad oltre 14,6 miliardi di euro: l’incremento è del 581% che significa, in parole semplici, che l’ammontare è più che sestuplicato. Una vera manna per l’industria militare nazionale, capeggiata dai colossi a controllo statale Finmeccanica-Leonardo e Fincantieri. E’ tutto da verificare, invece, se le autorizzazioni rilasciate siano conformi ai dettami della legge n. 185 del 1990 e, soprattutto, se davvero servano alla sicurezza internazionale e del nostro paese.

 

Renzi e il motto di Baden Powell

Un fatto è certo: è un record storico dai tempi della nascita della Repubblica. Ma, visto il totale silenzio, il primato sembra imbarazzare non poco il capo scout di Rignano sull’Arno che ama presentarsi ricordando il motto di Baden Powell: “Lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato”. L’imbarazzo è comprensibile: la stragrande maggioranza degli armamenti non è stata destinata ai paesi amici e alleati dell’UE e della Nato (nel 2016 a questi paesi ne sono stati inviati solo per 5,4 miliardi di euro pari al 36,9%), bensì ai paesi nelle aree di maggior tensione del mondo, il Nord Africa e il Medio Oriente. E’ in questa zona – che pullula di dittatori, regimi autoritari, monarchi assoluti sostenitori diretti o indiretti del jihadismo oltre che di tiranni di ogni specie e risma – che nel 2016 il governo Renzi ha autorizzato forniture militari per oltre 8,6 miliardi di euro, pari al 58,8% del totale. Anche questo è un altro record, ma pochi se ne sono accorti.

 

Il basso profilo della sottosegretaria Boschi

Eppure non sono cifre segrete. Sono tutte scritte, nero su bianco e con tanto di grafici a colori, nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell'esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2016” inviata alle Camere lo scorso 18 aprile. L’ha trasmessa l’ex ministra delle Riforme e attuale Sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Maria Elena Boschi. Nella relazione di sua competenza l’ex catechista e Papa girl si è premurata di segnalare che “sul valore delle esportazioni e sulla posizione del Kuwait come primo partner, incide una licenza di 7,3 miliardi di euro per la fornitura di 28 aerei da difesa multiruolo di nuova generazione Eurofighter Typhoon realizzati in Italia”.  Al resto – cioè ai sistemi militari invitati in 82 paesi del mondo tra cui soprattutto quelli spediti in Medio Oriente – la Sottosegretaria ha riservato solo un laconico commento: “Si è pertanto ulteriormente consolidata la ripresa del settore della Difesa a livello internazionale, già iniziata nel 2014, dopo la fase di contrazione del triennio 2011-2013”. La legge n. 185 del 1990, che regolamenta la materia, stabilisce che l’esportazione e i trasferimenti di materiale di armamento “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell'Italia”: autorizzare l’esportazione di sistemi militari a paesi al di fuori delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia meriterebbe pertanto qualche spiegazione in più da parte di chi, durante il governo Renzi e oggi col governo Gentiloni, ha avuto la delega al programma di governo.

 

I meriti della ministra Pinotti

Non c’è dubbio, però, che gran parte del merito per il boom di esportazioni sia della ministra della Difesa, Roberta Pinotti. E’ alla “sorella scout”, titolare di Palazzo Baracchini, che va attribuito il pregio di aver consolidato i rapporti con i ministeri della Difesa, soprattutto dei paesi mediorientali. La relazione del governo non glielo riconosce apertamente, ma la principale azienda del settore, Finmeccanica-Leonardo, non ha mancato di sottolinearne il ruolo decisivo. Soprattutto nella commessa dei già citati 28 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon: “Si tratta del più grande traguardo commerciale mai raggiunto da Finmeccanica” – commentava l’allora Amministratore Delegato e Direttore Generale di Finmeccanica, Mauro Moretti. “Il contratto con il Kuwait si inserisce in un’ampia e consolidata partnership tra i Ministeri della Difesa italiano e del Paese del Golfo” – aggiungeva il comunicato ufficiale di Finmeccanica-Leonardo. Alla firma non poteva quindi mancare la ministra, nonostante i slittamenti della data dovuti – secondo fonti ben informate – alle richieste di chiarimenti circa i costi relativi “a supporto tecnico, addestramento, pezzi di ricambio e la realizzazione di infrastrutture”.
Anche il Ministero della Difesa ha posto grande enfasi sui “rapporti consolidati” tra Italia e Kuwait: rapporti – spiegava il comunicato della Difesa“che potranno essere ulteriormente rafforzati, anche alla luce dell’impegno comune a tutela della stabilità e della sicurezza nell’area mediorientale, dove il Kuwait occupa un ruolo centrale”. Nessuna parola, invece, sul ruolo del Kuwait nel conflitto in Yemen, in cui è attivamente impegnato con 15 caccia, insieme alla coalizione a guida saudita che nel marzo del 2015 è intervenuta militarmente in Yemen senza alcun mandato internazionale. I meriti della ministra Pinotti nel sostegno all’export di sistemi militari non si limitano ai caccia al Kuwait: va ricordato anche l’accordo di cooperazione militare con Qatar per la fornitura da parte di Fincantieri di sette unità navali dotate di missili MBDA per un valore totale di 5 miliardi di euro, che però non compare nella Relazione governativa. Ma, soprattutto, non va dimenticata la visita della ministra Pinotti in Arabia Saudita per promuovere “affari navali”: ne ho parlato qualche mese fa e rimando in proposito ai miei precedenti articoli.

 

Le dichiarazioni dell’ex ministro Gentiloni

Una menzione particolare spetta all’ex ministro degli Esteri e attuale presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. E’ lui, ex catechista ed ex sostenitore della sinistra extraparlamentare, che più di tutti si è speso in difesa delle esportazioni di sistemi militari. Lo ha fatto nella sede istituzionale preposta: alla Camera in riposta a due “Question Time”. Il primo risale al 26 novembre 2015, in riposta ad un’interrogazione del M5S, durante la quale il titolare della Farnesina, dopo aver ricordato che “… abbiamo delle Forze armate, abbiamo un’industria della Difesa moderna che ha rapporti di scambio e esportazioni con molti paesi del mondo…” ha voluto evidenziare che “è importante ribadire che l’Italia comunque rispetta, ovviamente, le leggi del nostro paese, le regole dell’Unione europea e quelle internazionali (pausa) sia per quanto riguarda gli embargo che i sistemi d’arma vietati”. Già, ma la legge 185/1990 e le “regole Ue e internazionali” non si limitano agli embarghi, anzi pongono una serie di specifici divieti sui quali Gentiloni ha bellamente sorvolato.
Nel secondo, del 26 ottobre 2016, in risposta ad un’interrogazione del M5S che riguardava nello specifico le esportazioni di bombe e materiali bellici all’Arabia Saudita e il loro impiego nel conflitto in Yemen, Gentiloni ha sostenuto che “l’Arabia Saudita non è oggetto di alcuna forma di embargo, sanzione o restrizione internazionale nel settore delle vendite di armamenti”. Tacendo però sulla Risoluzione del Parlamento europeo, votata ad ampia maggioranza già nel febbraio del 2016, che ha invitato l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e Vicepresidente della Commissione, Federica Mogherini, ad avviare un’iniziativa finalizzata all’imposizione da parte dell’UE di un embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita”, in considerazione delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale perpetrate dall’Arabia Saudita nello Yemen. Questa risoluzione, finora, è rimasta inattuata anche per la mancanza di sostegno da parte del Governo italiano.

 

Ventimila bombe da sganciare in Yemen

Rispondendo alla suddetta interrogazione, Gentiloni ha però dovuto riconoscere le “la ditta RWM Italia, facente parte di un gruppo tedesco, ha esportato in Arabia Saudita in forza di licenze rilasciate in base alla normativa vigente”. Un’assunzione, seppur indiretta, di responsabilità da parte del ministro. Il quale, nonostante i vari organismi delle Nazioni Unite e lo stesso Ban Ki-moon abbiano a più riprese condannato i bombardamenti della coalizione saudita sulle aree abitate da civili in Yemen (sono più di 10mila i morti tra i civili), ha continuato ad autorizzare le forniture belliche a Riad. E non vi è notizia che le abbia sospese, nemmeno dopo che uno specifico rapporto trasmesso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu non solo ha dimostrato l’utilizzo anche delle bombe della RWM Italia sulle aree civili in Yemen, ma ha affermato che questi bombardamenti “may amount to war crimes” (“possono costituire crimini di guerra”).
Nella Relazione inviata al Parlamento spiccano le autorizzazioni all’Arabia Saudita per un valore complessivo di oltre 427 milioni di euro. Tra queste figurano “bombe, razzi, esplosivi e apparecchi per la direzione del tiro” e altro materiale bellico. La relazione non indica, invece, il paese destinatario delle autorizzazioni rilasciate alle aziende, ma l’incrocio dei dati forniti nelle varie tabelle ministeriali, permette di affermare che una licenza da 411 milioni di euro alla RWM Italia è destinata proprio all’Arabia Saudita: si tratta, nello specifico, dell’autorizzazione all’esportazione di 19.675 bombe Mk 82, Mk 83 e Mk 84. Una conferma in questo senso è contenuta nella Relazione Finanziaria della Rheinmetall (l’azienda tedesca di cui fa parte RWM Italia) che per l’anno 2016 segnala un ordine “molto significativo” di “munizioni” per 411 milioni di euro da un “cliente della regione MENA” (Medio-Oriente e Nord Africa).
La legge n. 185/1990 vieta espressamente l’esportazione di sistemi militari “verso Paesi in conflitto armato e la cui politica contrasti con i princìpi dell'articolo 11 della Costituzione”, ma – su questo punto – nessun commento nella Relazione. E nemmeno da Renzi. Men che meno da Gentiloni. Che l’attuale capo del governo si sia dato come obiettivo quello di migliorare la performance di Renzi nell’esportazione di sistemi militari?

lunedì 5 giugno 2017

I "ribelli" appoggiati dagli USA stabiliscono una nuova base a sud-est della Siria

dalla pagina http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-i_ribelli_appoggiati_dagli_usa_stabiliscono_una_nuova_base_a_sudest_della_siria/82_20387/

Ormai non si tratta solo di supposizioni, la lotta all'ISIS era solo un pretesto per gli USA per entrare in Siria. Le sorti della guerra nel paese arabo è chiaro: si definiranno ai confini con Giordania e Iraq. 

I membri di Maghaweir Al-Thawra (guardie rivoluzionarie), un gruppo islamista sostenuto dagli USA, hanno istituito un nuovo campo nella zona di Al-Zagiph, nel sud-est della Siria.

L'area si trova a 70 chilometri a nord est di Al-Tanf al confine con l'Iraq e a circa 130 chilometri a sud di Al-Bukamal nella provincia di Deir Ezzor controllata dall'ISIS.

Secondo la dichiarazione rilasciata dal gruppo, la nuova guarnigione intende intensificare la lotta contro il gruppo terroristico.

Tuttavia, sembra ovvio che imporre il controllo sul confine siriano-iracheno è la principale priorità per gli Stati Uniti e per i loro alleati islamici, piuttosto che combattere l'ISIS.
Da sottolineare che la creazione del nuovo campo dei "ribelli" nella Siria sudorientale sia coinciso con il recente annuncio di un rappresentante di un'altra entità appoggiata dagli USA, ovvero le 'Forze democratiche siriane', SDF, le quali hanno sostenuto che "non permetteranno ai gruppi paramilitari sciiti di entrare in Siria dall'Iraq."

Pertanto, il vero obiettivo a lungo termine delle operazioni militari statunitensi nel sud-est della Siria potrebbe essere collegato con le unità delle SDF nella parte nordorientale del paese e quindi effettivamente sigillare l'intero confine siriano-iracheno per isolare Damasco dall'Iraq.
 
Fonte: Al Masdar news - Hammurabi’s Justice
 

Leggi L'Antidiplomatico

http://www.lantidiplomatico.it/