venerdì 31 marzo 2017

11 settembre: le foto "mai viste" dell'attacco al Pentagono...

dalla pagina http://www.rainews.it/dl/rainews/media/FBI-diffonde-foto-inedite-attacco-11-9-al-Pentagono-Ecco-le-immagini-066c5dee-44dd-4a2e-aaf2-70b7a733f91d.html
 
FBI diffonde foto inedite dell'attacco dell'11/9 al Pentagono. 
Ecco le immagini
https://vault.fbi.gov/9-11-attacks-investigation-and-related-materials/9-11-images

Vi si possono vedere rottami dell'aereo [???] dell'American Airlines che si schiantò contro l'edificio e anche alcuni interni dell'edificio stesso con i soccorritori già al lavoro.


Ovvero: come prendere "in giro" la gente "che si lascia prendere in giro"... E dove sarebbe l'aereo?? E i motori, il carrello...? Quel pezzo di lamiera
Perché quelle foto? Perché adesso? Forse per [cercare di] dire: "Ecco fatto. Capitolo chiuso"?? Forse, esiste qualche analogia con la messa in scena della uccisione di Bin Laden... 
Consigliamo: 

Dietro la cortina di fumo

  Le ricerche di Barbara Honegger sul "false flag" - "inside job" al Pentagono

e per un approfondimento più ampio sugli eventi del 9/11
il film di Massimo Mazzucco

11 Settembre La Nuova Pearl Harbor

 

giovedì 30 marzo 2017

BREVE STORIA DELLA NATO DAL 1991 AD OGGI

dalle pagine
https://fotografonicoletti.blogspot.it/2017/03/breve-storia-della-nato-dal-1991-ad.html
https://www.change.org/p/la-campagna-per-l-uscita-dell-italia-dalla-nato-per-un-italia-neutrale/u/19855724

di Manlio Dinucci
Fonte Comitato promotore #NO GUERRA #NO NATO

PARTE 1
 
La Nato, fondata il 4 aprile 1949, comprende durante la guerra fredda sedici paesi: Stati Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica federale tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Attraverso questa alleanza, gli Stati Uniti mantengono il loro dominio sugli alleati europei, usando l’Europa come prima linea nel confronto, anche nucleare, col Patto di Varsavia. Questo, fondato il 14 maggio 1955 (sei anni dopo la Nato), comprende Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica democratica tedesca, Romania, Ungheria, Albania (dal 1955 al 1968).

DALLA GUERRA FREDDA AL DOPO GUERRA FREDDA
Nel 1989 avviene il «crollo del Muro di Berlino»: è l’inizio della riunificazione tedesca che si realizza quando, nel 1990, la Repubblica Democratica si dissolve aderendo alla Repubblica Federale di Germania. Nel 1991 si dissolve il Patto di Varsavia: i paesi dell’Europa centro-orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati dell’Urss. Nello stesso anno, si dissolve la stessa Unione Sovietica: al posto di un unico Stato se ne formano quindici.
La scomparsa dell’Urss e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. Contemporaneamente, la disgregazione dell’Urss e la profonda crisi politica ed economica che investe la Russia segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense.
La guerra del Golfo del 1991 è la prima guerra che, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, Washington non motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione alla base di tutti i precedenti interventi militari statunitensi nel «terzo mondo», dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall'invasione di Grenada all'operazione contro il Nicaragua. Con questa guerra gli Stati Uniti rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo, dove si concentra gran parte delle riserve petrolifere mondiali.
Allo stesso tempo Washington lancia ad avversari, ex avversari e alleati un inequivocabile messaggio. Esso è contenuto nella National Security Strategy of the United States (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti), il documento con cui la Casa Bianca enuncia, nell’agosto 1991, la nuova strategia.
«Nonostante l'emergere di nuovi centri di potere – sottolinea il documento a firma del presidente – gli Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare – realmente globali. Negli anni Novanta, così come per gran parte di questo secolo, non esiste alcun sostituto alla leadership americana».
Sei mesi dopo la direttiva presidenziale, un documento proveniente dal Pentagono -- Defense Planning Guidance for the Fiscal Years 1994-1999 (Guida alla pianificazione della Difesa per gli anni fiscali 1994-1999), filtrato attraverso il New York Times nel marzo 1992 -- chiarisce ciò che nella direttiva presidenziale doveva restare necessariamente implicito: il fatto che, per esercitare la loro leadership globale, gli Stati Uniti devono impedire che altre potenze, compresi i vecchi e i nuovi alleati, possano divenire competitive: «Il nostro primo obiettivo è impedire il riemergere di un nuovo rivale, o sul territorio dell'ex Unione Sovietica o altrove, che ponga una minaccia nell'ordine di quella posta precedentemente dall'Unione Sovietica. Dobbiamo impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti, se controllate strettamente, a generare una potenza globale. Queste regioni comprendono l'Europa occidentale, l'Asia orientale, il territorio dell'ex Unione Sovietica, e l'Asia sud-occidentale.
In tale quadro, sottolinea il documento, «è di fondamentale importanza preservare la Nato quale principale strumento della difesa e della sicurezza occidentali, così pure quale canale dell'influenza e della partecipazione statunitensi negli affari della sicurezza europea. Mentre gli Stati Uniti sostengono l'obiettivo dell'integrazione europea, essi devono cercare di impedire la creazione di dispositivi di sicurezza unicamente europei, che minerebbero la Nato, in particolare la struttura di comando dell'Alleanza», ossia il comando Usa.

IL NUOVO CONCETTO STRATEGICO DELLA NATO
Mentre riorientano la propria strategia, gli Stati Uniti premono sulla Nato perché faccia altrettanto. Per loro è della massima urgenza ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso dell’Alleanza atlantica. Con la fine della guerra fredda e il dissolvimento del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, viene infatti meno la motivazione della «minaccia sovietica» che ha tenuto finora coesa la Nato sotto l’indiscussa leadership statunitense: vi è quindi il pericolo che gli alleati europei facciano scelte divergenti o addirittura ritengano inutile la Nato nella nuova situazione geopolitica creatasi nella regione europea.
Il 7 novembre 1991 (dopo la prima guerra del Golfo, a cui la Nato ha partecipato non ufficialmente in quanto tale, ma con sue forze e strutture), i capi di stato e di governo dei sedici paesi della Nato, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «Il nuovo concetto strategico dell'Alleanza». «Contrariamente alla predominante minaccia del passato – afferma il documento – i rischi che permangono per la sicurezza dell'Alleanza sono di natura multiforme e multidirezionali, cosa che li rende difficili da prevedere e valutare. Le tensioni potrebbero portare a crisi dannose per la stabilità europea e perfino a conflitti armati, che potrebbero coinvolgere potenze esterne o espandersi sin dentro i paesi della Nato». Di fronte a questi e altri rischi, «la dimensione militare della nostra Alleanza resta un fattore essenziale, ma il fatto nuovo è che sarà più che mai al servizio di un concetto ampio di sicurezza». Definendo il concetto di sicurezza come qualcosa che non è circoscritto all’area nord-atlantica, si comincia a delineare la «Grande Nato».

PARTE 2
 
L’INTERVENTO NATO NELLA CRISI BALCANICA
Il «nuovo concetto strategico» della Nato viene messo in pratica nei Balcani, dove la crisi della Federazione Jugoslava, dovuta ai contrasti tra i gruppi di potere e alle spinte centrifughe delle repubbliche, ha raggiunto il punto di rottura.
Nel novembre 1990, il Congresso degli Stati Uniti approva il finanziamento diretto di tutte le nuove formazioni «democratiche» della Jugoslavia, incoraggiando così le tendenze secessioniste. In dicembre, il parlamento della Repubblica croata, controllato dal partito di Franjo Tudjman, emana una nuova costituzione in base alla quale la Croazia è «patria dei croati» (non più dei croati e dei serbi, popoli costituenti della repubblica) ed è sovrana sul suo territorio. Sei mesi dopo, nel giugno 1991, oltre alla Croazia, anche la Slovenia proclama la propria indipendenza. Subito dopo, scoppiano scontri tra l’esercito federale e gli indipendentisti. In ottobre, in Croazia, il governo Tudjman espelle oltre 25mila serbi dalla Slavonia, mentre sue milizie occupano Vukovar. L’esercito federale risponde, bombardando e occupando la città. La guerra civile comincia a estendersi, ma potrebbe ancora essere fermata.
La via che viene imboccata è invece diametralmente opposta: la Germania, impegnata a estendere la sua influenza economica e politica nella regione balcanica, nel dicembre 1991 riconosce unilateralmente Croazia e Slovenia quali stati indipendenti. Come conseguenza, il giorno dopo i serbi di Croazia proclamano a loro volta l’autodeterminazione, costituendo la Repubblica serba della Krajna. Nel gennaio 1992 l’Europa dei dodici riconosce, oltre alla Croazia, anche la Slovenia. A questo punto si incendia anche la Bosnia-Erzegovina che, in piccolo, rappresenta l’intera gamma dei nodi etnici e religiosi della Federazione Jugoslava.
I caschi blu dell’Onu, inviati in Bosnia come forza di interposizione tra le fazioni in lotta, vengono volutamente lasciati in numero insufficiente, senza mezzi adeguati e senza precise direttive, finendo col divenire ostaggi nel mezzo dei combattimenti. Tutto concorre a dimostrare il «fallimento dell’Onu» e la necessità che sia la Nato a prendere in mano la situazione. Nel luglio 1992 la Nato lancia la prima operazione di «risposta alla crisi», per imporre l’embargo alla Jugoslavia.
Nel febbraio 1994, aerei Nato abbattono aerei serbo-bosniaci che violano lo spazio aereo interdetto sulla Bosnia. E’ la prima azione di guerra dalla fondazione dell’Alleanza. Con essa la Nato viola l’art. 5 della sua stessa carta costitutiva, poiché l’azione bellica non è motivata dall’attacco a un membro dell’Alleanza ed è effettuata fuori dalla sua area geografica.

LA GUERRA CONTRO LA JUGOSLAVIA
Spento l’incendio in Bosnia (dove il fuoco resta sotto la cenere della divisione in stati etnici), i pompieri della Nato corrono a gettare benzina sul focolaio del Kosovo, dove è in corso da anni una rivendicazione di indipendenza da parte della maggioranza albanese. Attraverso canali sotterranei in gran parte gestiti dalla Cia, un fiume di armi e finanziamenti, tra la fine del 1998 e l’inizio del 1999, va ad alimentare l’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo), braccio armato del movimento separatista kosovaro-albanese. Agenti della Cia dichiareranno successivamente di essere entrati in Kosovo nel 1998 e 1999, in veste di osservatori dell’Osce incaricati di verificare il «cessate il fuoco», fornendo all’Uck manuali statunitensi di addestramento militare e telefoni satellitari, così che i comandanti della guerriglia potessero stare in contatto con la Nato e Washington. L’Uck può così scatenare un’offensiva contro le truppe federali e i civili serbi, con centinaia di attentati e rapimenti.
Mentre gli scontri tra le forze jugoslave e quelle dell’Uck provocano vittime da ambo le parti, una potente campagna politico-mediatica prepara l’opinione pubblica internazionale all’intervento della Nato, presentato come l’unico modo per fermare la «pulizia etnica» serba in Kosovo. Bersaglio prioritario è il presidente della Jugoslavia, Slobodan Milosevic, accusato di «crimini contro l’umanità» per le operazioni di «pulizia etnica».
La guerra, denominata «Operazione forza alleata», inizia il 24 marzo 1999. Mentre gli aerei di Stati Uniti e altri paesi della Nato sganciano le prime bombe sulla Serbia e il Kosovo, il presidente democratico Clinton annuncia: «Alla fine del XX secolo, dopo due guerre mondiali e una guerra fredda, noi e i nostri alleati abbiamo la possibilità di lasciare ai nostri figli un’Europa libera, pacifica e stabile». Determinante, nella guerra, è il ruolo dell’Italia: il governo D’Alema mette il territorio italiano, in particolare gli aeroporti, a completa disposizione delle forze armate degli Stati Uniti e altri paesi, per attuare quello che il presidente del consiglio definisce «il diritto d’ingerenza umanitaria».
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane, 1100 aerei effettuano 38 mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili. Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle bombe e dei missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è anche la rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence attraverso cui vengono condotte le operazioni: «Dei 2000 obiettivi colpiti in Serbia dagli aerei della Nato – documenta successivamente il Pentagono – 1999 sono stati scelti dall’intelligence statunitense e solo uno dagli europei».
Sistematicamente i bombardamenti smantellano le strutture e infrastrutture della Serbia, provocando vittime soprattutto tra i civili. I danni che ne derivano per la salute e l’ambiente sono inquantificabili. Solo dalla raffineria di Pancevo fuoriescono, a causa dei bombardamenti, migliaia di tonnellate di sostanze chimiche altamente tossiche (compresi diossina e mercurio). Altri danni vengono provocati dal massiccio impiego da parte della Nato, in Serbia e Kosovo, di proiettili a uranio impoverito, già usati nella guerra del Golfo.
Ai bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che compiono 1378 sortite, attaccando gli obiettivi indicati dal comando statunitense. «Per numero di aerei siamo stati secondi solo agli Usa. L’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra», dichiara il presidente del consiglio D’Alema durante la visita compiuta il 10 giugno 1999 alla base di Amendola, sottolineando che, per i piloti che vi hanno partecipato, è stata «una grande esperienza umana e professionale».
Il 10 giugno 1999, le truppe della Federazione iugoslava cominciano a ritirarsi dal Kosovo e la Nato mette fine ai bombardamenti. La risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu dispone che la presenza internazionale deve avere una «sostanziale partecipazione della Nato» ed essere dispiegata «sotto controllo e comando unificati». A chi spetti il comando lo chiaritsce il presidente Clinton, sottolineando che l’accordo sul Kosovo prevede «lo spiegamento di una forza internazionale di sicurezza con la Nato come nucleo, il che significa una catena di comando unificata della Nato». «Oggi la Nato affronta la sua nuova missione: quella di governare», commenta The Washington Post.
Finita la guerra, vengono inviati in Kosovo dagli Stati Uniti oltre 60 agenti dell’Fbi, ma non vengono trovate tracce di eccidi tali da giustificare l’accusa, fatta ai serbi, di «pulizia etnica». Slobodan Milosevic, condannato a 40 anni di reclusione dalla Corte Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, muore dopo cinque anni di carcere. La stessa corte lo scagiona, nel 2016, dall’accusa di «pulizia etnica».
Il Kosovo, dove gli Usa installano una grande base militare (Camp Bondsteel), diviene una sorta di protettorato della Nato. Contemporaneamente, sotto la copertura della «Forza di pace», l’ex Uck al potere terrorizza ed espelle oltre 250 mila serbi, rom, ebrei e albanesi «collaborazionisti». Nel 2008, con l’autoproclamazione del Kosovo quale Stato indipendente, viene ultimata la demolizione della Federazione Jugoslava.

mercoledì 22 marzo 2017

“Un’altra difesa è possibile”

dalla pagina http://www.difesacivilenonviolenta.org/la-campagna-unaltra-difesa-e-possibile-alla-commissione-difesa-mettete-in-calendario-la-legge-su-difesa-civile-e-nonviolenta/

La Campagna “Un’altra difesa è possibile” alla Commissione Difesa: mettete in calendario la legge su difesa civile e nonviolenta

Incontro alla Camera dei Deputati con il Presidente della IV Commissione Francesco Saverio Garofani e alcuni deputati firmatari della proposta di legge

Un importante momento di confronto con le istituzioni e la politica, nel quale i rappresentanti delle Reti promotrici di “Un’altra difesa è possibile” hanno chiesto con forza la calendarizzazione della legge per una difesa civile non armata e nonviolenta. Questo è il risultato positivo dell’incontro avvenuto mercoledì 15 marzo nell’Aula della Commissione Difesa della Camera tra una delegazione della Campagna è il Presidente della IV Commissione Francesco Saverio Garofani, alla presenza anche dei Deputati Massimo Artini, Giorgio Zanin, Giulio Marcon e Luca Frusone.
Riteniamo che i tempi siano maturi per l’approvazione in questa legislatura della Legge sulla Istituzione e finanziamento del Dipartimento della Difesa civile non armata e nonviolenta – ha detto Mao Valpiana, coordinatore della Campagna “Un’altra difesa è possibile, intervenendo a nome delle 6 Reti promotrici – Le istituzioni hanno già accolto molte delle nostre proposte come il Servizio Civile universale e la sperimentazione dei Corpi Civili di pace. Ora lavoriamo per ottenere il riconoscimento e la pari dignità tra la difesa armata e la difesa civile, per dare piena attuazione all’articolo 52 della Costituzione”.
In questo momento particolare, nel quale viene agitato il tema della ‘legittima difesa’ per preludere ad un tipo di difesa personale fai-da-te – continua Valpiana – dare una veste istituzionale alla difesa nonviolenta può essere la risposta migliore per mantenere il dibattito dentro al quadro costituzionale, con risposte concrete ed efficaci”.
Nel corso dell’incontro si sono anche ripercorsi i positivi passi compiuti dalla Campagna a partire dall’Arena di pace e disarmo di Verona del 25 aprile 2014: elaborazione del testo di legge, raccolta delle firme per la presentazione dell’iniziativa popolare, consegna alla Presidente della Camera, adesione di 74 deputati e presentazione dell’iniziativa parlamentare, incardinamento nelle Commissioni I e IV, distribuzione su tutto il territorio di 40.000 cartoline, convocazione degli Stati Generali della Dcnanv, raccolta e consegna ai deputati delle 21.000 cartoline sottoscritte dai cittadini. La delegazione di “Un’altra difesa è possibile” ha direttamente consegnato al Presidente Garofani le cartoline a lui espressamente inviate dagli elettori nel corso della seconda fase di mobilitazione, che si è conclusa con la raccolta di circa 21000 cartoline che i sostenitori dell’iniziativa hanno voluto indirizzare a 545 deputati, di diversi gruppi politici, per premere verso la calendarizzazione della proposta di legge. I pacchi con le cartoline sono stati consegnati alla Camera dei Deputati e verranno distribuiti nei prossimi giorni a ciascun parlamentare destinatario.
Se da un verso è già importante che la mobilitazione delle Reti del mondo del disarmo, della Pace, della nonviolenza, del servizio civile abbia portato nel dibattito politico il tema dei mezzi non armati e nonviolenti ancora necessari per assolvere al dovere costituzionale della difesa della Patria, è altrettanto importante che tale sforzo abbia ora una ricaduta nel dibattito parlamentare. Con una traccia di dibattito istituzionale e di primo approfondimento che rimanga anche come base per qualsiasi iniziativa futura.
I contenuti della Proposta di Legge parlamentare ad oggi sottoscritta da 74 deputati sono chiari e rispecchiano i temi cardine già presenti nell’iniziativa popolare: dotare il nostro Paese, in maniera innovativa e in anticipo su altri Stati europei, di un dipartimento per la difesa civile non armata e nonviolenta. Cioè di una struttura stabile istituzionalmente dedicata a esercitare – con approfondimento e professionalità – i percorsi di costruzione della pace tramite interventi civili e di gestione nonviolenta dei conflitti. In accordo con strutture già esistenti (Ufficio Nazionale del Servizio Civile e Protezione Civile) e con capacità di analisi strategica tramite un Istituto di Ricerca su Pace e Disarmo.
L’auspicio dei promotori della Campagna e di tutte le organizzazioni, oltre 200, che lavorano nell’ambito delle Reti promotrici è che si raggiunga il prima possibile un risultato del genere, a partire da una prima rapida calendarizzazione in commissione Difesa, per giungere poi ad una conseguente approvazione alla Camera, di tale Proposta di Legge ormai da circa un anno all’attenzione della politica, dalla quale ci attendiamo risposte chiare e positive.


sabato 11 marzo 2017

11 settembre 2001: I grattacieli non cadono così


250000 persone hanno visto l'articolo riassuntivo di AE911Truth.org [Architetti e Ingegneri per la Verità sull'11 Settembre] dal titolo "15 anni dopo: sulla fisica dei crolli dei grattacieli" pubblicato su EuroPhysics che descrive l'insostenibilità della versione ufficiale relativa ai crolli delle Torri Gemelle (WTC 1 e 2) e dell'Editificio 7 (WTC 7) l'11 settembre 2001.


E’ importante ricordare che il fuoco non ha mai causato il crollo totale di edifici con struttura in acciaio, né prima né dopo l’11 settembre. Avremmo allora assistito ad uno stesso evento senza precedenti per ben tre volte l’11 settembre 2001? Le relazioni del NIST [Istituto Nazionale per gli Standard e la Tecnologia negli USA], che hanno tentato di sostenere quella improbabile conclusione, non riescono a persuadere un numero crescente di architetti, ingegneri e scienzati. Piuttosto, l’evidenza punta in modo preponderante alla conclusione che tutti e tre gli edifici siano stati distrutti da demolizioni controllate. Date le implicazioni di ampia portata, è eticamente imperativo che tale ipotesi diventi oggetto di una indagine veramente scientifica e imparziale da parte di autorità responsabili.

Architetti e Ingegneri per la Verità sull’ 11 settembre
AE911truth.org - verità sull' 11 settembre
AE911Truth.org
2814 Ingegneri e Architetti affermano che il crollo delle Torri Gemelle (WTC-1 e 2) dell’Edificio 7 (WTC-7) del World Trade Center fu il risultato di demolizioni controllate
   
L’ 11 settembre 2001 per la prima (e ad oggi ultima) volta nella storia dell’ingegneria civile, non 1, non 2 ma ben 3 grattacieli con strutture in acciaio e cemento sarebbero crollati – in modo simmetrico cioé su se stessi,  e praticamente in caduta libera – a seguito dell’impatto di un aereo di linea e conseguente incendio (Torri Gemelle) e, rispettivamente, per un incendio alimentato da attrezzatura e materiali da ufficio (nel caso dell’Edificio 7, WTC-7, di 47 piani) …
La demolizione controllata, che presuppone una lunga e accurata progettazione e l’impiego di potenti esplosivi, rimane l’unica ipotesi logica e plausibile e l’unico modello in grado di spiegare gli eventi dell’11 settembre al World Trade Center, mentre i modelli proposti dalle indagini ufficiali sull’ 11 settembre NON corrispondono alla realtà di come sono avvenuti i crolli:

  • i modelli “ufficiali” proposti [“Pancake collapse” e “Pile driver collapse”] sono di fatto  sbagliati
  • l’unico modello che fino ad ora corrisponde alla realtà dei crolli dei 3 edifici è quello di demolizione controllata, che richiede progettazione e cariche esplosive, come l’organizzazione Architetti e Ingegneri per la Verità sull’11 Settembre AE911Truth.org da anni afferma.

Un semplice ed efficace video è disponibile per illustrare le implicazioni dei vari modelli e la loro corrispondenza o meno ai dati reali: 9/11 Experiments: The Force Behind the Motion.

Il fisico David Chandler ha dimostrato (video) che l’Edificio 7 (WTC-7) è crollato in perfetta caduta libera per circa 2,5 sec (su un totale di 6,5 sec, contro i teorici 6,2 sec di una completa caduta libera); un edificio può crollare in caduta libera o quasi solo nel caso di demolizioni controllate, in cui cariche esplosive eliminano la resistenza offerta dalla struttura stessa dell’edificio (muri, architravi, colonne, …).

"Ri-Pensa l’11 settembre 
 L’evidenza potrebbe sorprenderti"
 
ReThink911.orgReThink911è la campagna internazionale promossa dagli Architetti e Ingegneri USA di ae911truth.org   

La petizione “ReThink911” proposta da AE911Truth.org chiede la costituzione di una commissione di inchiesta, autorevole e indipendente, per indagare sugli eventi dell’ 11 settembre 2001. Finora è stata sottoscritta da 22836 persone.


Lo sapevi che una terza torre è caduta l’11 settembre 2001?

11 settembre: la terza torre WTC-7
Si tratta dell’Edificio 7 del World Trade Center crollato alle 5,20 del pomeriggio di quell’11 settembre … eppure non è stato colpito da un aereo, l’incendio che si era sviluppato non era sufficiente a farla crollare, è crollato su se stesso in 6,5 secondi, in caduta libera nei primi secondi, ricercatori indipendenti hanno trovato tracce evidenti di esplosivi molto potenti e ad elevata tecnologia, in uso solo in alcuni laboratori militari…

Ma chi non cerca non può trovare… L’indagine ufficiale ha inizialmente ignorato completamente l’Edificio 7. Successivamente i ricercatori ufficiali hanno proposto dei modelli che però non corripondono al modo in cui gli edifici sono crollati e non hanno investigato l’eventuale uso di materiale esplosivo: non cercandolo non l’hanno trovato!

Anche i mezzi di comunicazione di massa ufficiali (mainstream mass media) hanno volutamente ignorato e superficialmente denigrato anche i tentativi onesti e razionali di ricerca della verità su quanto avvenuto a New York l’ 11 settembre 2001, come ad esempio il New York Times…


Quindi, secondo il NY Times, 2 aerei avrebbero fatto crollare 3 edifici: le Torri Gemelle la mattina e l’Edificio 7 nel pomeriggio…

Se hai ancora dubbi e vuoi più informazioni...
guarda:

  • video di 30 sec sul crollo di WTC-7 da vari punti di vista 
  • video del crollo del WTC-7 confrontato con [altre] demolizioni controllate
  • l’intervista a Richard Gage, fondatore di AE911Truth.org, su C-Span, il canale pubblico della politica USA: guarda il video [doppiato in italiano]
  • i video di Massimo Mazzucco (luogocomune.net/site): 11 Settembre – La nuova Pearl Harbor (l’opera più esaustiva sull’11 settembre!!!) e Il Nuovo Secolo Americano per capire come è nata l’operazione false flag 9/11 (false flag = un attacco attribuito ad altri, nel caso specifico a Osama Bin Laden da un rifugio in Afghanistan…)
  • il film di Giulietto Chiesa, Zero
  • Behind The Smoke Curtain: What Happened at the Pentagon on 9/11, and What Didn’t, and Why it Matters di Barbara Honegger ha ampiamente dimostrato [video in italiano] che quello al Pentagono fu un inside job = auto-attentato e una operazione false flag
  • altri video nella nostra lista video http://presenzalongare.blogspot.it/p/video.html

leggi: 

mercoledì 8 marzo 2017

IL PENTAGONO DELLA MINISTRA PINOTTI


Comitato promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO
Italia
8 mar 2017 — Manlio Dinucci
La ministra Pinotti ha un sogno: un Pentagono italiano, ossia un’unica struttura per i vertici di tutte le forze armate, una copia in miniatura di quello statunitense. Il sogno sta per diventare realtà. La nuova struttura, annuncia la ministra in un’intervista a Repubblica, è già in fase progettuale ed è previsto un primo stanziamento nel budget della Legge di stabilità.

Sorgerà nella zona aeroportuale di Centocelle a Roma, dove c’è spazio per costruire altri edifici e infrastrutture. A Centocelle, dove è stata trasferita anche la Direzione generale degli armamenti con il suo staff di 1500 persone, c’è già il Comando operativo di vertice interforze, attraverso cui il Capo di stato maggiore della Difesa comanda tutte le operazioni delle forze armate.

Anzitutto quelle all’estero: l’Italia è impegnata in 30 missioni militari in 20 paesi, dal Kosovo all’Iraq e all’Afghanistan, dalla Libia alla Somalia e al Malì. Dato che in ciascuna partecipano componenti di tutte le forze armate, spiega la ministra, occorre un comando unico interforze con sede a Centocelle.

Viene così attuato, ancor prima che venga discusso in parlamento, il disegno di legge sulla implementazione del «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa», presentato il 10 febbraio dal Consiglio dei ministri.

È quindi già in atto il golpe bianco che, nel silenzio generale, sovverte le basi costituzionali della Repubblica italiana, riconfigurandola quale potenza che interviene militarmente nelle aree prospicienti il Mediterraneo – Nordafrica, Medioriente, Balcani – a sostegno dei propri «interessi vitali» economici e strategici, e ovunque nel mondo siano in gioco gli interessi dell’Occidente rappresentati dalla Nato sotto comando Usa.

Occorrono a tal fine nuovi armamenti. Ad esempio i primi due aerei Gulfstream 550 modificati, che l’Italia ha appena ricevuto da Israele al prezzo di circa un miliardo di dollari: veri e propri comandi volanti, dotati dell’elettronica più avanzata, per missioni di attacco a lungo raggio.

Occorrono allo stesso tempo professionisti della guerra, capaci di usare le nuove tecnologie e di combattere in lontani paesi nelle più diverse condizioni ambientali. «Abbiamo bisogno di soldati giovani, – spiega la ministra Pinotti – la chiave sta nell'arruolare persone a 19-20 anni, offrirgli un pacchetto formativo importante per sette anni della loro vita, insegnando lingue e professionalità. Se si ritroveranno sul mercato a 26-27 anni non sarà difficile trovare un'altra occupazione anche perché ci impegniamo a costruire nuove opportunità di lavoro con percorsi legislativi». In una situazione di disoccupazione e precariato, si offre cosi ai giovani il modo per guadagnare e avere un posto sicuro: la guerra.

E ai professionisti della guerra, agli ordini del Pentagono italiano, viene affidata nel disegno di legge anche la «salvaguardia delle libere istituzioni» con «compiti specifici in casi di straordinaria necessità ed urgenza», formula vaga che si presta a misure autoritarie e a strategie eversive.

Tutto questo costa. L’Italia, annuncia la Pinotti, anche se non è ancora in grado di portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil come richiede la Nato, la sta incrementando: «Quest'anno siamo all'1,18% del Pil pari a circa 23 miliardi». La ministra ci informa quindi che l’Italia spende per la «difesa» in media 63 milioni di euro al giorno, cui si aggiungono le spese per le missioni militari e i principali armamenti, iscritte nei budget di altri ministeri.

A Roma, mentre divampa il dibattito politico sull’impatto ambientale del nuovo stadio, nessuno si preoccupa dell’impatto sociale del nuovo Pentagono tricolore.

(il manifesto, 7 marzo 2017)

venerdì 3 marzo 2017

8 MARZO 2017: SCIOPERO DELLE DONNE

dalla pagina https://nonunadimeno.wordpress.com/2017/01/17/8-marzo-2017-sciopero-delle-donne-se-le-nostre-vite-non-valgono-allora-ci-fermiamo/ 

SE LE NOSTRE VITE NON VALGONO,
ALLORA CI FERMIAMO!

L’8 marzo è una giornata di lotta, non un’occasione per locali, ristoranti e fiorai di far girare l’economia. Prende vita dagli scioperi delle operaie che dai primi del Novecento in tutto il mondo animarono le lotte per i loro diritti violati di persone e lavoratrici. Ricordiamo Il primo, quello delle camiciaie di New York nel 1909, poi lo sciopero e la rivolta delle operaie di Pietrogrado, l’8 marzo del 1917, perché senza donne non c’è rivoluzione possibile!
Niente fiori e cioccolatini, dunque: non abbiamo niente da festeggiare, abbiamo tutto da cambiare! Dopo le straordinarie giornate di mobilitazione che hanno visto milioni di donne nelle piazze di tutto il mondo, dalla Polonia, all’Italia, alla Germania, alla Turchia, dal Brasile all’Argentina, il prossimo 8 marzo sarà l’occasione per riprenderci questa giornata di lotta: sarà SCIOPERO GLOBALE DELLE DONNE. Lanciato dalle donne argentine, ha raccolto l’adesione di oltre 22 paesi al grido di “Se le nostre vite non valgono, non produciamo”. Differenti luoghi e contesti, analoga condizione di subalternità e violenza per le donne: NI UNA MENOS, allora, non una di meno in piazza, la chiamata rimbalza ai quattro angoli del pianeta: Uniamoci per continuare a lottare!
L’8 marzo sciopereremo anche in Italia. Una giornata in cui sperimentare/praticare forme di blocco della produzione e della riproduzione sociale, reinventando lo sciopero come vera e propria pratica femminista a partire dalle forme specifiche di violenza, discriminazione e sfruttamento che viviamo quotidianamente, 24 ore al giorno, in ogni ambito della vita, che sia pubblico o privato. Constatiamo ogni giorno quanto la violenza sia fenomeno strutturale delle nostre società, strumento di controllo delle nostre vite e quanto condizioni ogni ambito della nostra esistenza: in famiglia, al lavoro, a scuola, negli ospedali, in tribunale, sui giornali, per la strada, … per questo il prossimo 8 marzo ci asterremo da ogni attività produttiva e riproduttiva che ci riguardi.
Sarà uno sciopero in cui riaffermare la nostra forza a partire dalla nostra sottrazione: una giornata senza di noi. Resteremo al sole delle piazze a goderci la primavera che arriva anche per noi a dispetto di chi ci uccide per “troppo amore”, di chi, quando siamo vittime di stupro, processa prima le donne e i loro comportamenti; di chi “esporta democrazia” in nostro nome e poi alza muri tra noi e la nostra libertà. Di chi scrive leggi sui nostri corpi; di chi ci lascia morire di obiezione di coscienza. Di chi ci ricatta con le dimissioni in bianco perché abbiamo figli o forse li avremo; Di chi ci offre stipendi comunque più bassi degli uomini a parità di mansioni, …
Dopo la grande manifestazione del 26 e l’assemblea partecipatissima del 27 novembre a Roma, ci riuniremo in un terzo appuntamento nazionale, il 4 e il 5 febbraio a Bologna, in cui riprenderemo la stesura del Piano femminista contro la violenza. Un piano scritto dal basso, dal vissuto delle donne, dall’esperienza dei centri antiviolenza femministi, dalle condizioni materiali e dalle necessità primarie per costruire concretamente percorsi di fuoriuscita dalla violenza. Discuteremo delle forme e delle pratiche dello sciopero. Le forme tradizionali del lavoro e della lotta si combineranno con la trasformazione del lavoro contemporaneo – precario, intermittente, frammentato – e con il lavoro domestico e di cura, invisibile e quotidiano, ancora appannaggio quasi esclusivo delle donne, ancora sottopagato e gratuito. Sarà uno sciopero dai ruoli imposti dal genere in cui mettere in crisi un modello produttivo e sociale che, contemporaneamente, discrimina e mette a profitto le differenze.
A cento anni dall’8 marzo 1917, torneremo in strada in tutto il mondo, a protestare e a scioperare contro la guerra che ogni giorno subiamo sui nostri corpi: la violenza, fisica, psicologica, culturale, economica. Se le nostre vite non valgono, allora ci fermiamo!

A COSA SERVE LO SCIOPERO:
Lo sciopero è in primo luogo una forma di lotta che si fonda sul blocco della produzione e sull’astensione dal lavoro con l’obiettivo di produrre un danno economico e di rendere tangibile il ruolo del lavoro nella produzione.
mutuiamo lo sciopero come pratica fondamentale per segnalare la nostra sottrazione da una società violenta nei confronti delle donne: per questo lo sciopero sarà articolato sulle 24 ore e riguarderà ogni nostra attività, produttiva e riproduttiva, ogni ambito, pubblico o privato, in cui discriminazione, sfruttamento e violenza su ognuna di noi si riaffermano. Se delle nostre vite si può disporre (fino a provocarne la morte) perché ritenute di poco valore, vi sfidiamo a vivere, produrre, organizzare le vostre vite senza di noi. Se le nostre vite non valgono, noi ci fermiamo.
Uno sciopero per ribaltare i rapporti di forza, per mettere al centro le nostre rivendicazioni, la necessità di trasformare relazioni, rapporti sociali e narrazioni. In casa, a scuola, sui luoghi di lavoro, nelle istituzioni. Uno sciopero che ha nel piano femminista antiviolenza la sua piattaforma e il suo programma di lotta e di trasformazione scritto dal basso.

COME SCIOPERARE L’8 MARZO:
non esiste una sola forma di sciopero da sperimentare l’8 marzo. Esistono condizioni di lavoro e di vita molto diverse. Lo sciopero coinvolgerà lavoratrici dipendenti, precarie, autonome, intermittenti, disoccupate, studentesse, casalinghe. Indipendentemente dal nostro profilo, siamo coinvolte in molteplici attività produttive e riproduttive che sfruttano le nostre capacità e ribadiscono la nostra subalternità.
Per praticare concretamente il blocco delle attività produttive e riproduttive, elenchiamo solo alcune possibilità: l’astensione dal lavoro, lo sciopero bianco, lo sciopero del consumo, l’adesione simbolica, lo sciopero digitale, il picchetto, …
Lo sciopero si rivolge principalmente alle donne, ma ha più forza se innesca un supporto mutualistico con gli altri lavoratori, le reti relazionali e sociali, chi assume come prioritaria questa lotta. Vogliamo trovare soluzioni condivise e collettive come è avvenuto in Polonia in cui molti uomini, mariti, compagni, padri, fidanzati, fratelli, nonni, amici, hanno svolto un lavoro di supplenza nello svolgimento di attività normalmente svolte dalle donne.
Le assemblee cittadine di Non Una di Meno e i tavoli di lavoro tematici, territoriali e nazionali, saranno il luogo privilegiato in cui costruire e immaginare le forme dello sciopero a partire dalle vertenze, dalle specificità del territorio e dalle reti attivate, attraverso iniziative pubbliche di confronto e di approfondimento in avvicinamento all’8 marzo. Sarà comunque utile immaginare strumenti che facilitino lo scambio di idee e proposte, la costruzione di immaginario, utilizzando il blog e campagne social. L’assemblea nazionale del 4-5 febbraio a Bologna sarà l’occasione per definire e consolidare il piano politico e il coordinamento delle iniziative dell’8 marzo.
L’obiettivo è andare oltre l’evocazione e il simbolico e praticare concretamente il blocco delle attività produttive e riproduttive da parte del maggiore numero possibile di persone.
Abbiamo fatto appello ai sindacati per la convocazione di uno sciopero generale per l’8 marzo così da permettere la possibilità di adesione al più ampio numero di lavoratrici dipendenti e a chi gode del diritto di scioperare.
Se sei precaria e non ti è garantito il diritto di scioperare, puoi chiedere un permesso (per esempio per andare a donare il sangue) e astenerti dal lavorare. Per chi lavora in nero o in modo saltuario si possono organizzare iniziative di sostegno materiale e casse di mutuo soccorso.
Grande ruolo potranno avere i centri antiviolenza in quella giornata organizzando iniziative e rilanciando il piano femminista contro la violenza a partire dall’esperienza e le competenze di chi opera in questo settore.
La pratica del picchetto può essere utilizzata per un doppio scopo: bloccare gli accessi per bloccare la produzione; praticare presidi di denuncia contro persone, narrazioni e comportamenti violente, svilenti e dannose per le donne (reparti a alta densità di obiettori di coscienza, luoghi di lavoro, testate giornalistiche, …) sul modello dell’escrache argentino.
Per consentire anche a chi non può scioperare in altro modo, rilanciamo cortei o manifestazioni, diurne o serali, in tutte le città per riprenderci la notte e lo spazio pubblico, per fare marea e conquistare visibilità pubblica e protagonismo in ogni città.

Non Una Di Meno – Roma